Oltre tre anni fa ho scritto questo post. Nel frattempo sono cambiate molte cose, ma l’intuizione della rilevanza del rapporto tra contenuto e commerce è andata rafforzandosi nel tempo, diventando oggi quasi una strada obbligata soprattutto per le Media Companies (MCs). Nel 2011 la perdita nella raccolta pubblicitaria cartacea per i quotidiani USA ha superato gli incrementi di quella digitale in un rapporto superiore a 10 a 1: a un dollaro sul digitale ha corrisposto l’evaporazione di $10 di pubblicità cartacea. Una sorpresa solo per gli sprovveduti del settore, non una minoranza. Che le entrate da raccolta digitale non fossero e non siano in grado di mantenere la struttura costi di aziende editoriali concepite, progettate e sviluppate per la carta un’evidenza oggettiva da almeno inizio secolo. Cercare qualche altro approccio creativo non è quindi la conseguenza di una naturale evoluzione del proprio business, quanto una presa di coscienza del disastro in corso e un disperato tentativo di arginare il costante declino.
In Inghilterra dal 2008 alcuni quotidiani hanno cercato di abbracciare un approccio strategico che ruota attorno a tre C: Contenuto, Comunità e Commercio. C-cube la sigla che attribuisco al tentativo di essere più social (comunità) e a individuare fonti di revenue integrative e differenzianti visto che la pubblicità per giornali e riviste è in costante riduzione (commercio). La prima C è quasi scontata, sebbene spesso abbia dei dubbi leggendo siti italiani di notizie: troppo generici, non tempestivi e con una linea editoriale pensata a massimizzare il consumo per generare volume utile a scopi pubblicitari. La componente di Community è stata abbastanza metabolizzata, almeno per quanto riguarda il ricorso a Twitter per amplificare la distribuzione delle notizie e Facebook anche per attrarre lettori. Meno però per quanto concerne l’interazione con i lettori, ancora in molte occasioni territorio temuto piuttosto che sfruttato. Su Commerce il razionale è la dimensione dei volumi attuali e futuri oltre al presupposto di riuscire facilmente a convertire dei lettori in clienti sfruttando la credibilità e l’autorevolezza del proprio brand. Lo sta facendo il Wall Street Journal proponendo vini di qualità a condizioni favorevoli. Questo non significa mettere in pista delle vere e proprie operazioni di commercio online, quanto piuttosto di esporre ai propri lettori proposte commerciali di terze parti con l’obiettivo di trattenere una percentuale sulle transazioni. I $327B di e-commerce previsti per il 2016 nei soli USA un indicatore sufficientemente forte per rendere questa prospettiva interessante, sebbene le credenziali per le MCs in questo ambito siano praticamente nulle.
Da capire se sia una combinazione realizzabile non tanto dal punto di vista pratico, quanto piuttosto in termini di comprensione, accettazione e apprezzamento da parte dei lettori stimolati a diventare anche acquirenti in un contesto di mercato dove le alternative qualificate non mancano. La mia teoria nel post del febbraio 2010 era che questo percorso fosse più semplice per un negozio online piuttosto che per una Media Company. La complessità, la scientificità e la sofisticazione delle operazioni di commercio elettronico non si improvvisano, richiedendo competenze, investimenti e risorse specializzate, un mestiere diverso dalla produzione di contenuti.
In questa fase diverse MCs provano a capire come monetizzare la propria audience partendo dalle rispettive aree di expertise editoriali. Per chi produce contenuti nel settore della moda, per esempio, sembra naturale sconfinare nell’offerta commerciale di capi e accessori, sebbene il confine tra parlare di fashion e fare proposte commerciali presenta alcune complicazioni non trascurabili, compresa la credibilità. Mantenere una posizione neutrale rispetto ai propri inserzionisti pubblicitari, i lettori e supportare azioni di vendita richiede un bilanciamento non facile da ipotizzare. Tutto ciò in un momento in cui l’interesse per l’e-commerce coincide con una massiccia entrata in campo di tutti i retailer e dei brand della moda, dai più prestigiosi a quelli di largo seguito. Forse, quindi, alla intrinseca difficoltà di morphing da editore a una forma più evoluta e in sintonia con i tempi di editore/venditore, si aggiunge un timing non particolarmente felice. Da capire, poi, la sostanza dell’eventuale contribuzione di introiti derivanti dalla promozione di attività di commercio elettronico di terze parti. Se è vero che la torta dell’e-commerce è enorme e in costante espansione, è altrettanto vero che il numero di agguerriti pretendenti è costituito da realtà consolidate e brand di grand notorietà. Non da ultimo, spesso la relazione e il livello di engagement tra lettore e testata è molto labile (gli abbonamenti in Italia sono storicamente una percentuale minoritaria delle vendite) e nel mondo online nessuno è “proprietario” degli UUs. Lo spazio che vedo quindi è molto ristretto, limitato ad agire come convogliatore di traffico verso proposte commerciali realizzate da terze parti e forse co-branded, con i rischi di credibilità menzionati e con una potenziale contribuzione al conto economico sottile visti i ridotti margini che caratterizzano l’e-commerce. Affascinate teoria quella di C-cube, ma non una partita semplicissima, quindi.