Alcuni giorni fa ho avuto una piacevole conversazione con uno dei più preparati, competenti e aggiornati direttori del personale nel settore dell’editoria in Italia. Notavamo come fino a pochi anni fa chiunque volesse esercitare la professione del giornalista non avesse molte scelte se non intraprendere una carriera ad hoc, confluendo in ultima battuta in una Media Company, l’unica soluzione possibile. In quel contesto storico, non esistevano alternative. I giornalisti di maggior successo, credibilità e seguito trasferivano valore alla testata di appartenenza e beneficiavano del blasone della stessa in una sorta di naturale relazione simbiotica. Il pensiero e il lavoro del giornalista non poteva che essere canalizzato attraverso gli strumenti messi a disposizione dall’azienda, forse nulla di diverso da quanto succede per uno sportivo professionista. Sempre consentito cambiare casacca, ma indispensabile disporre di un “contenitore” per espletare la propria professione.
Con l’avvento e l’introduzione di nuove tecnologie di comunicazione le cose sono cambiate radicalmente, rendendo ancora più debole la posizione dell’editore costretto a combattere battaglie su più fronti. In primo luogo contro il business model in collasso permanente e incapace di trasferire garanzie di continuità nel tempo. E già questo non sembrerebbe un problema di secondo ordine. Le alternative per accedere a notizie si sono moltiplicate, il valore economico della breaking news si è quasi liquefatto e le abitudini dei consumatori si sono velocemente adattate a nuovi modi di consumare contenuto. A complicare il tutto, la granularizzazione o atomizzazione della dimensione di una Media Company. Da organizzazioni aziendali con ampi organici fino – quasi paradossalmente – a entità singole capaci di attirare attorno a sé e al proprio operato una massa di utenti sufficientemente ampia da arrivare a competere di fatto contro l’establishment. Una sorta di Davide e Golia con il primo spesso messo molto bene e non nel ruolo di underdog per definizione. Quindi Media Companies che si trovano a dover fronteggiare una competizione che può partire addirittura dai suoi stessi dipendenti i giornalisti. Un paradosso?
Da tempo mi domando infatti se, almeno in alcuni casi, non possa esistere una specie di competizione tra la comunicazione svolta dal singolo giornalista attraverso il proprio blog o account Twitter e la redazione di appartenenza. O, se preferite, come si conciliano le due. I commenti, le notizie e le informazioni trasferite da un giornalista nel proprio blog sono un’estensione del modo di comunicare della testata o, in quanto personali, una cosa diversa? Come deve regolarsi il lettore che segue assiduamente i feed di un giornalista? Sviluppa una relazione diretta con il singolo, con la Media Company di appartenenza del giornalista o con entrambe le entità? Ma ancora, nel momento in cui un soggetto raggiunge un audience di alcune decine di migliaia di followers, quanto quella relazione include l’azienda editoriale e quanto la esclude?
Una prima conseguenza di tutto ciò è quasi un’assurdità: un giornalista dipendente di una struttura editoriale potrebbe essere percepito dal mercato come un competitor dello stesso datore di lavoro, banalmente catturando tempo media che viene sottratto alla lettura o visione di prodotti editoriali dove l’azienda applica una logica di monetizzazione attraverso la vendita di spazi pubblicitari. È un problema di tipo contrattuale e normativo di non facile soluzione perché nuovo, interpretabile in diversi modi e intricato come qualsiasi aspetto legato alla comunicazione e le informazioni, soprattutto in un paese politicizzato all’ennesima potenza come l’Italia. Ma si tratta di uno scenario concreto, reale e sotto gli occhi di tutti. A New York è al centro del dibattito dei media.
La redazione del New York Times ha deciso di sfoltire i ranghi della redazione riducendo lo staff di 30 giornalisti attraverso una proposta di uscita supportata da incentivi economici. Indirizzati i membri più senior dello staff, forse i più esperti, competenti e conosciuti, ma anche i più costosi. Fin qui nulla di nuovo. Tra questi Jim Roberts, assistant managing editor al NYT, e una storica firma della testata con i suoi 26 anni di presenza. Lasciando il posto di lavoro, Jim Roberts è intenzionato – come logico direi – di proseguire nella sua azione di comunicazione personale attraverso il proprio account Twitter con oltre 75.000 followers. Il focus nella frase precedente va su “personale”. Per il giornalista non c’è dubbio che quanto assemblato nel tempo in termini di credibilità e seguito sia un proprio asset. Per il NYT la prospettiva è differente.
Notate come il nome del giornalista sia preceduto dall’acronimo NYT, l’abbreviazione della testata. Questo un primo elemento del contendere. L’account è un ibrido tra un elemento individuale e il nome dell’azienda, soluzione che ha inizialmente trovato entrambe le parti d’accordo perché aggiungeva blasone da un lato e permetteva all’editore di estendere la propria reputazione e brand verso un numero crescente e spesso incrementale di lettori. Concretamente, anche perché nessuno si è mai posto il problema fino a poco tempo fa. Per Jim Roberts cambiare il proprio nome su Twitter un non-problema sia tecnicamente che legalmente. Da parte dell’editore, la percezione di aver contribuito in misura non trascurabile alla costruzione del seguito media attraverso Twitter. Per alcuni il NYT si priverà non solo di un giornalista di successo, ma anche di 75.000 followers. La sensazione è che il legame tra i 75K e Jim sia indipendente dalla testata a questo punto e che possa proseguire nel tempo con lo stesso interesse e credibilità.
Due le domande/considerazioni sul tema in generale. La prima è in qualità di lettore: la decisione di seguire un giornalista attraverso i suoi tweets significa “ascoltare” il singolo o il singolo in qualità di rappresentante della testata? La sensazione è che sia molto più la prima che la seconda sia per mancanza di coordinamento interno alla redazione della strategia di informazioni attraverso canali alternativi rispetto al prodotto “core” dell’azienda che per la costruzione di un legame diretto tra individui, spesso interattivo.
La considerazione è che questo genere di confusione si estenda anche a un dipendente di un’azienda non editoriale. In questo caso con regole ribaltate. Il peso del brand aziendale è preponderante nel trasferire credibilità verso il pubblico e il flusso informativo generato può essere interpretato e confuso come equivalente alla posizione aziendale. Molto sbagliato e rischioso. Indispensabile quindi indicare in modo chiaro la distinzione tra quanto viene comunicato a titolo personale e i canali di comunicazione strutturati dell’azienda di appartenenza. Una sorta di codice di condotta utile per separare l’ambito personale da quello professionale. Vale anche per i giornalisti. Kara Swisher è un’apprezzata giornalista, blogger nota negli USA nel settore dell’Information Technology. Il suo Ethics statement un buon esempio di come tracciare questa linea.