La popolazione di Boston, MA, supera di poco i 600K abitanti. L’area urbana denominata Greater Boston raggiunge nel complesso i 4.5M di individui, la decima negli USA. Il quotidiano cittadino è The Boston Globe, fondato da sei businessman locali nel lontano 1872 con un investimento complessivo di $150,000, un importo approssimativamente equivalente a circa $3M di oggi. Dal 1993 di proprietà de The New York Times Company grazie a una transazione finanziaria di $1.1B comprendente altre proprietà oltre al quotidiano, già nel 1995 disponeva di una propria identità online all’indirizzo boston.com. Da qualche ora la proprietà è passata nelle mani del miliardario John Henry proprietario, tra l’altro della squadra di baseball Boston Red Socks. L’importo della transazione: $70M.
Rifacendosi al valore di acquisto di 20 anni fa – ricordando che non si tratta esattamente di un confronto omogeneo – risultano evidenti due elementi:
- la perdita di valore di Media Companies tradizionali nell’arco dell’ultimo ventennio indipendentemente dagli investimenti fatti in ambito digitale. Questa una regola universale e irreversibile. Boston.com, nonostante i 18 anni di presenza sul mercato e un pubblico di riferimento decisamente ampio, non è andato oltre i 39K abbonati al sito di notizie;
- l’assenza di qualsiasi speranza per la maggior parte delle Media Companies di sopravvivere a questo cambio epocale nelle regole di comunicazione e di interazione tra le persone, lasciando spazio solo a pochissime realtà capaci di adattarsi al nuovo scenario facendo leva sul proprio prestigio, la scalabilità a livello mondiale o posizionamenti di nicchia. New York Times un perfetto esempio di questa categoria con numero limitato di rappresentanti.
Nulla di tutto ciò dovrebbe stupire visto che proprio il 3 agosto 2010 il Washington Post ha venduto il settimanale di notizie NewsWeek – un brand iconico del settore – per la somma di $1. Insomma, un buon precedente sufficientemente datato da allertare anche i più distratti.
Altrettanto ovvio che queste considerazioni si applicano alla perfezione anche ad altri mercati come quello italiano, un enclave linguistico di piccole dimensioni ulteriormente penalizzato da una propensione alla lettura limitata da sempre e con una particolare attenzione per le notizie sportive. Rimango quindi sempre stupito – ma provo anche ammirazione per il livello di fantasia che riscontro in certe decisioni – per i continui investimenti fatti anche di recente in Media Companies nostrane che molto difficilmente potranno sottrarsi al destino di realtà come The Boston Globe visto che la traiettoria è esattamente la stessa con alcune aggravanti a corredo. Molti fanno ancora riferimento al termine “influente” per descrivere quotidiani e le proprie emanazioni online. Anche in questo caso sono in imbarazzo nel valutare il peso di questa presunta influenza rispetto all’impatto reale che nuove forme di comunicazione digitale hanno sui cittadini e gli elettori, visto che spesso è a questo a cui si punta. Gli addetti del settore continuano a ripetermi che si tratta di un tipico esempio della ben nota politica di scambio che prevede di accollarsi delle perdite in iniziative editoriali in cambio di benefici in altri settori secondo una logica tipica nostrana. Riporto con altrettanto stupore.
Sebbene $70M siano tanti, sono in realtà peanuts. Per trasferire una giusta prospettiva allo scenario in generale, il gallese Gareth Bale dovrebbe passare dalla squadra londinese dei Tottenham Hotspurs al Real Madrid per €100M, cioè $130M, quasi il doppio. Conferma la mia teoria che siamo tutti delle Media Companies e alcuni soggetti – sportivi o personaggi dello star system – lo sono in misura anche maggiore delle cosiddette Media Companies tradizionali.