Circa tre anni fa mi sono trovato a pormi questa domanda: se il 40% dell’utenza di un sito web accede attraverso dispositivi mobili, qual è in chiave prospettica la vera natura di quel servizio? Facile rispondere: essere un qualcosa di completamente diverso da quanto originariamente percepito. Logico e banale. Cerco di spiegare meglio. Immaginate un servizio web di successo concepito intorno al 2007. Progressivamente negli anni e con velocità iniziale ridotta, parte dell’utenza proviene dalla componente mobile. Concepire nuove funzionalità e anche costruire la relazione con il consumatore partendo dal concetto di pagina corretto e sensato. Nel momento in cui però l’esperienza offerta viene beneficiata secondo altre modalità da una percentuale sempre crescente della propria popolazione, sensato porsi una domanda di tipo esistenziale: è corretto proseguire secondo l’approccio originario o conviene abbracciare un altro paradigma? In altri termini, sono quello che ero? Anche in questo caso risposta scontata.
Quando corretto porsi un simile interrogativo, forse un po’ meno evidente. Radicalizzando il problema, nel momento in cui un servizio originariamente pensato come una collezione di pagine Web viene utilizzato dalla maggioranza della propria utenza attraverso smartphone non è più quel servizio. È un’altra cosa, diversa se non nella sostanza sicuramente nelle modalità di erogazione e di fruizione. Questo è quanto hanno notato i signori di Facebook da tempo e quanto sta succedendo in mercati molto avanzati come USA e UK. L’utenza non è anche mobile: è in prima battuta mobile e forse anche da browser da computer. Paradigma ribaltato. Di sicuro un bel cambiamento. Proprio sulla base di questa riflessione-ovvietà, ho spinto nella primavera 2011 affinché come Google Italia ci impegnassimo a condividere con il mercato il concetto di “ovvietà del mobile”, il tutto culminato con un bell’evento erogato in centro a Milano con oltre un migliaio di partecipanti.
C’è oggi una seconda manifestazione del “principio della ovvietà” che vorrei condividere con un po’ di imbarazzo sapendo che, per definizione, è già noto a tutti. Facebook è l’entità per la certificazione digitale di ciascuno di noi. Avete bisogno di una carta di identità per viaggiare tra paesi occidentali non Schenghen? Serve un passaporto per entrare negli USA, Russia o Cina? Allo stesso modo sono indispensabili credenziali Facebook per viaggiare in rete e attestare la propria identità. Immagino ve ne foste accorti. La prova matematica è semplice e inconfutabile: 6 e rotti miliardi di abitanti sul pianeta, ma meno di un quarto in rete. Oltre un miliardo di utenti registrati su Facebook. Non è proprio una sovrapposizione millimetrica, ma – bear with me. Facebook Connect lo strumento, Facebook più in generale il servizio per identificare l’identità digitale di ciascuno di noi. Se questo assioma passa il vaglio della vostra approvazione, subito un postulato: assicurarsi di reclamare la propria identità digitale su qualsiasi piattaforma social quasi un obbligo, indipendentemente o meno dalla volontà di essere attivi e partecipativi in ogni contenitore. Meglio evitare brutte sorprese nel mondo digitale dove le opportunità di impersonificazione sono sicuramente più semplici che nel mondo reale.
Avventurandomi ulteriormente nel territorio di un vostro complice consenso, un’altra semplice conclusione: parlare di Facebook come “Torre d’avorio” intendendo una sorta di sotto-segmento di Internet, un po’ tropo semplicistico e forse anche superficiale. Se “tutti” sono su Facebook, se Facebook è il certificatore delle identità digitali, pensare a “tutti” come un sott’insieme è quasi un controsenso. Quello che succede dentro Facebook è di portata così ampia da essere rilevante per tutti a questo punto. Se ne sono accorti i loro concorrenti che hanno cercato di stringere alleanze (Apple) o di combattere sullo stesso terreno (Google).
Oggi Facebook ha presentato Graph Search in versione beta, il motore di ricerca interno di Facebook. Per quanto raccontato nei paragrafi precendenti, personalmente faccio fatica a considerare questa un’ulteriore funzione di ghettizzazione e di separazione dal resto del Web. Nel momento in cui si crede che:
- volumi di informazioni e di dati facilmente elaborabili siano un asset e contengano del valore;
- elevati volumi – sebbene inferiori alla totalità – si possono facilmente confondere con l’unanimità fino ad arrivare ad attribuirne una rilevanza statistica assimilabile a un comportamento generalizzato. Se 9 persone su dieci apprezzano le mele rimane sempre il sospetto che il campione scelto o trovato sia in qualche modo skewed. Se 90,000 su 100,000 condividono la passione per le mele, il volume è così significativo e oggettivamente misurato da non modificarne la percentuale numerica, ma da aprire opportunità di business e offrire chiavi di lettura basate sul presupposto che la massa degli estimatori delle mele è veramente ampia e nota;
- la componete social è un segnale storicamente con un’elevata valenza intrinseca per la componente interpersonale sempre esistita e, più recentemente, per l’aggiunta della dimensione di oggettività grazie alla sua misurabilità, …
Allora Graph Search ha molto senso e si posiziona come uno strumento in più. E utile.