Nuovo verbo da aggiungere al proprio vocabolario: to showroom con showrooming tempo più frequente. Vi anticipo che si tratta di una brutta cosa. Quindi i lettori più sensibili sono caldamente consigliati di valutare con attenzione se proseguire nella lettura. Di che si tratta più nello specifico? Di un problema – alquanto serio e grave – che affligge ormai da tempo principalmente le grandi catene americane che operano nello spazio dell’elettronica di consumo. Ma l’infezione si sta estendendo ad altri settori come i beni di largo consumo, quelli per la casa, le calzature e molti altri ancora. Apparentemente uno dei soggetti maggiormente colpiti da questo fenomeno infettivo è BestBuy, catena di consumer electronics originaria del Minnesota e da decenni leader del settore. I recenti dati finanziari hanno fortemente evidenziato questo fenomeno a cui viene attribuita la ragione principale delle vendite in generale e della redditività per square foot (noi diremmo per metro quadrato) di superficie di vendita scesa recentemente sotto i $20 rispetto, tanto per prendere un paragone a caso, ai $4.700 degli Apple Store (tutti gli zero presenti sono corretti, così come quelli assenti nel primo numero).
Come si manifesta lo showrooming? Diversi gli agenti coinvolti. Come ovvio a questo punto, come prima cosa serve un negozio che espone merce. Meglio se in quantità e di diverso genere. Questo genere di realtà attrae alcuni soggetti innoqui chiamati generalmente clienti o acquirenti e altri agenti patogeni portatori appunto dello showrooming. I primi si limitano a visionare gli scaffali, ricercare prodotti e, realisticamente, concludere qualche acquisto attraverso una transazione finanziaria. I secondi, invece, operano come dei veri e propri parassiti. Vagano per le corsie del negozio armati di un elemento letale – uno smartphone – e non hanno alcuna intenzione di completare un acquisto. Almeno non nel punto vendita. Piuttosto si danno da fare a fare fotografie ai prodotti esposti e a verificare su Internet se sussistano condizioni di prezzo più favorevoli, ottimizzando i propri investimenti. Un’infezione da showrooming consiste quindi nel sostenere costi per operare punti vendita di grandi dimensioni – quindi con ottima selezione interna – a tutto vantaggio di altri negozi che realisticamente beneficeranno degli sforzi altrui concludendo una vendita che comporta costi incrementali rispetto al bene vicini allo zero.
Insomma, tecnologia giustamente a vantaggio dei consumatori, ma questi ultimi anche un po’ fetenti. Se poi si pensa che sulle vendite online quasi tutti gli Stati dell’Unione non raccolgono le tasse sulle vendite, si capisce come la “beffa” abbia contorni ancora più ampi. Personalmente non voglio vedere i grandi retailers fare la fine dei dinosauri: sono utili e trasferiscono valore. Anche se nel lungo periodo il rischio è che da showrooming il tutto possa “degenerare” verso forme economicamente insostenibili.
In fondo le persone (qualcuno li chiama ancora consumatori) hanno sempre cercato di cogliere le opportunità che le tecnologie dell’epoca permettono loro. Solo che adesso sono decisamente più potenti e, particolare che si tende a dimenticare, sono davvero tanti in termini assoluti (popolazione mondiale raddoppiata in pochi decenni) e ciò rende più probabili comportamenti in scala.
Nell’ecommerce delle calzature ad esempio, quando è previsto il reso gratuito (ormai prassi frequente) gli acquirenti più smart acquistano consapevolmente due misure e poi rimandano indietro quella che non calza bene.
Nuovi comportamenti da considerare… mentre ci succedono sotto gli occhi